Ei fu… Il nostro priore.

di Donato Ferrara

Non potevo non iniziare questo articolo se non citando Manzoni. Il richiamo alla data nasce per ricordare insieme chi, oggi, avrebbe compiuto 93 anni: don Vincenzo Pagliara, priore della SS.Annunziata dal 1982 al 2008, scomparso nel 2013. L’accostamento tra lui e Napoleone non è una mia idea, era proprio lui a ricordarlo.

Ma per raccontare di don Vincenzo voglio partire da lontano, parlando di due altri parroci dell’Annunziata. Siamo negli anni ‘40, quando mons. Vicinanza, si consegnò ai tedeschi come ostaggio al posto di parrocchiani catturati, passando nello storico ruolo, ben noto alle cronache, di Don Carmine De Girolamo, nell’alluvione del’54.

Era la primavera del 1980 ed io sedevo ai primi banchi nella messa di presa di possesso di don Vincenzo (il priore da quel momento). Chi era più grande di me aveva negli occhi e nel cuore i due importanti predecessori, ma io pur avendo fatto vita di parrocchia da quando sono nato, ero un bambino e non avevo ancora un’immagine mia del parroco; partecipavo a questa celebrazione solenne con lo sguardo curioso tipico dell’età che avevo.

Quello che qualche adulto mi comunicava, insieme alle spiegazioni che i parroci non sono come i genitori e cambiano parrocchia normalmente, era però un velo di nostalgia per il cambiamento, sensazione per me difficile da capire. Purtroppo, però, feci mio quel triste sentimento per un motivo più personale: pochi giorni dopo persi mio nonno. Quest’evento, che comportò un momentaneo ritorno di mons. De Girolamo per il funerale, mi confuse ulteriormente sulla dinamica di nomina e sostituzione dei parroci.

Così iniziò il primo aprile del 1982 la nuova vita da parroco di don Vincenzo, data che spesso ripeteva dicendo che la sua nomina era un pesce d’aprile fatto alla parrocchia dall’arcivescovo Guerino Grimaldi.

Eravamo all’indomani del terremoto, erano ancora gli anni di piombo, c’era stato l’omicidio del giudice Giacumbi e, di lì a qualche settimana, sarebbe accaduta la strage di via Parisi ad opera delle brigate rosse; insomma erano anni difficili anche per Salerno, ma come detto, io ero un bambino e per fortuna queste cose non le vivevo, le conoscevo, ma non tutte le capivo.

La quotidianità della parrocchia, invece, cambiò ed anche noi bambini lo avevamo capito; innanzitutto perché la domenica a messa il celebrante era diverso: dalla chioma bianca di don Carmine passammo alla voce squillante, a tratti tuonante, di don Vincenzo. Quella voce, che talvolta sopperiva anche al malandato impianto microfonico cominciò ad entrare nella mia vita e a farmi approfondire sempre più il cammino verso la mia prima comunione. Così scoprii, negli anni in cui si costruiva il mio rapporto con Gesù, che il sacerdote, come braccio del Papa nelle parrocchie (passando per il vescovo ovviamente) era il Dolce Cristo in Terra; una definizione un po’ difficile per l’epoca, ma che mi aiutò nel capire come la chiesa funzionava e funziona. Allora lentamente anche la mia vita collaborativa in parrocchia acquisiva senso.

La mia prima confessione, fatta con don Vincenzo naturalmente, fu sicuramente legata a quella che era stata per anni solo una parola dettata dalle maestre di scuola per la letterina di Natale: l’obbedienza. Don Vincenzo ritornava spesso su questa virtù del bravo fanciullo cristiano (citandolo testualmente) e lo faceva anche in modo originale, dichiarando come questa dovesse essere simultaneamente, la prima, la seconda e la terza virtù per noi bambini.

Mi sono sempre interrogato sul perché fosse così importante l’obbedienza e una parte della risposta è arrivata nell’aprile del 2013 (alla vigilia del 90° di don Vincenzo), leggendo un’omelia, di Papa Francesco, in cui si chiedeva cosa significa obbedire a Dio. «Significa che noi dobbiamo essere come schiavi, tutti legati? No, perché proprio chi obbedisce a Dio è libero, non è schiavo! E come si fa questo? Io obbedisco, non faccio la mia volontà e sono libero? Sembra una contraddizione. E non è una contraddizione». Infatti «obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L’obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi».

Gli anni passavano, la mia prima comunione era lontana, e col tempo, crescendo, iniziavo a seguire e a capire meglio la vita della parrocchia, del quartiere e del parroco. Nell’ambito di un campo estivo vocazionale ad Acerno, scoprii che prima della mia nascita le messe venivano celebrate in latino, l’altare era rivolto al contrario e insieme a queste diversità esteriori capii che don Vincenzo e gli altri sacerdoti del suo periodo si erano formati ed erano stati ordinati prima del Concilio Vaticano II, il che mi sembrò come pensare che fossero vissuti nella preistoria. La sensazione della distanza la percepii proprio in quel campo scuola nell’estate dell’83, che probabilmente può essere annoverato nella storia della diocesi come l’ultimo campo scuola in modalità preconciliare. Non che fosse un corso tenuto da sacerdoti nostalgici del latino o lefebvriani, ma lo stile Wojtyla che di lì a poco avrebbe cambiato il mondo, non era ancora arrivato. Sia chiaro, fu una bellissima esperienza, non vorrei che qualcuno fraintendesse.

Il campo estivo, mi diede quindi una chiara chiave di lettura per comprendere chi, come don Vincenzo, era nato in un’epoca diversa dalla mia, che non per questo andava disprezzata e mi offrì l’opportunità di capire le difficoltà verso i cambiamenti di un uomo nato negli anni venti.

Tanto più che gli anni passavano, il priore non era più un ragazzino e col passare del tempo acquisire i cambiamenti è sempre difficile.

Ma di esempi di come don Vincenzo riuscisse, nonostante tutto, a non essere legato alla sua formazione, ne ebbi tantissimi. Mi capitò di leggere la storia di San Filippo Neri, e come sarà sicuramente capitato a tutti, la frase che più mi restò impressa fu “state buoni, se potete”. Quel se potete addolciva l’uso del tempo imperativo state. Don Vincenzo, quando ci voleva invitare a tornare a casa e a lasciare i locali parrocchiali perché era tardi, usava una consueta formula che io ho sempre associato a quella di san Filippo: “Se volete, potete andare”. In questa espressione ho sempre letto un passaggio epocale: non più rigide imposizioni, ma la sperimentazione della misericordia del Padre, proprio come Papa Francesco invita a sperimentre in questo giubileo straordinario.

Il bambino era cresciuto ed il ragazzo aveva preso il suo posto. Durante il periodo dell’adolescenza non ho mai abbandonato le mura di Porta catena; nelle tante esperienze fatte con l’Azione Cattolica nei raduni e campi diocesani guardavo con occhi, a tratti stupiti, i giovani parroci che avevano un rapporto molto diverso con i ragazzi rispetto al mio con don Vincenzo, ma non fu mai invidia. Alla fine degli anni ‘80 avevo perso due nonni e vari zii, per questo avevo già fatto mia l’idea che finché si è bambini si è accompagnati, ma poi crescendo si devono accompagnare gli altri e, per primi, vanno sorretti coloro che ti hanno sorretto da bambino.

Crescendo, nel fare mia la vocazione al matrimonio, ho sempre portato con me la frase del rito che don Vincenzo, durante le celebrazioni di questo sacramento, magistralmente sottolineava cambiando tono della voce e talvolta ruotando la mano benedicente, quasi a farla sembrare minacciosa (senza mai uscire dai canoni della liturgia): “Non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito”. Poche parole, ben evidenziate, per ribadire il senso dell’indissolubilità del sacramento al quale ho sempre creduto e che oggi vivo da sposato.

La voce del priore era una delle sue peculiarità, mai distonica con la liturgia, ma usata per dare colore a qualche omelia, come quel richiamo alla conversione “Convertitevi” (Mc 1, 15), che tornava ogni anno e per questo era familiare, quello stesso tono che poi usò Giovanni Paolo II contro i mafiosi ad Agrigento nel 1993 e che io già conoscevo, perché la conversione dei cuori era uno dei punti chiave della pastorale di don Vincenzo.

Arrivano gli anni ‘90, per me la maggiore età, scoppia tangentopoli. Quanti politici, quanti ministri che invece di fare il bene della nazione scopriamo essere collusi! Anche in questo caso don Vincenzo mi stupì, sottolineando un concetto che già aveva più volte detto, ma che nel caso di tangentopoli invece suonò come una grande discordanza. Egli amava sottolineare che l’etimologia latina di ministro fosse “servo, servitore”; lo affermava per se stesso, perché ci diceva che lui esercitava il ministero del sacerdozio come servizio, ma nel caso di tangentopoli, la riflessione fu ben diversa.

Ventisei anni parroco, il peso dell’età, ma non ho mai visto in lui distacco. E’ sempre stato partecipe, sicuramente uomo e, in quanto tale, a volte stanco, ma anche in quei periodi difficili, c’era una certezza: quando vedeva un bambino, lui gli sorrideva. L’altra costante è che don Vincenzo ha sempre continuato negli anni a cercare la luce. Spesso citava (in lingua originale) la frase che il filosofo tedesco Goethe disse in punto di morte: “Licht, mehr Licht” (Luce, più luce), ricerca e desiderio di Dio. Sono certo che quella citazione fosse ricorrente perché quelle parole ormai erano sue. L’evento più frequente in cui ripeteva quelle parole era, com’è immaginabile, ai funerali, durante i quali ho sempre visto don Vincenzo estremamente partecipe, sempre al fianco di chi soffriva, mai distaccato, per chiunque stesse celebrando l’estremo saluto.

Arriviamo ad oggi. Scrivendo queste righe in suo ricordo, mi rendo conto di quanto quei ventisei anni siano parte della mia vita e quanto le sue parole, la sua persona abbiano contribuito alla mia formazione. Tanti altri episodi vorrei ricordare, magari qualcuno in cui siamo stati in disaccordo, anche per far capire che il rapporto di don Vincenzo coi parrocchiani era senza filtro. Sicuramente a tanti di voi sarà capitato di ripetere gesti appresi dai propri genitori e, magari di rendersene conto solo dopo averli compiuti, per poi soffermarsi a pensare di aver compiuto un gesto o detto una frase proprio come l’aveva sentita o vista fare. Così è nato questo ricordo di don Vincenzo, perché sono sicuro che tanti di voi, ascoltando parole o vedendo compiere gesti di misericordia e carità da altre persone, ricordano i suoi.

Io ne ho raccontati vari, alcuni visti proprio da questo Papa, così diverso da don Vincenzo. Ne voglio raccontare un ultimo quanto mai attuale in quest’anno giubilare. Tutti siamo rimasti colpiti dalla semplicità di Papa Bergoglio, quando uno dei primi giorni del giubileo della misericordia si è andato a confessare come un qualsiasi fedele; quel gesto io l’avevo già visto. Eravamo in parrocchia, verso la metà degli anni novanta e, in occasione di una liturgia penitenziale, per dare supporto al priore per le confessioni venne un giovane sacerdote. Quale grande stupore per me vedere don Vincenzo, anziano e con quasi cinquanta anni di sacerdozio, inginocchiarsi e confessarsi da quel ragazzo!

Auguri don Vincenzo, buon compleanno!

5 maggio 2016